Come nasce questa intervista a Jacopo Natoli

In questo articolo, Yas e Viaggiarte vi invitano ad immergervi nel mondo dell’arte terapia, una disciplina che incorpora numerose formule di espressione artistica, principalmente impiegata per sviluppare le capacità creative dell’individuo e migliorarne non solo la salute mentale, ma anche le capacità cognitive, motorie, sensoriali, l’autostima, la consapevolezza di sé e la resilienza emotiva. Le arti visive rappresentano un vero e proprio supporto attraverso il quale il soggetto può autodeterminarsi, comunicando ed esprimendo liberamente ciò che si agita dentro di sé, con un’attenzione particolare al processo creativo e non necessariamente al risultato finale. Affrontiamo questo viaggio insieme a Jacopo Natoli.

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D: “Che cosa ne dici se per il prossimo pezzo parliamo di Arte Terapia?
I: “Sì, possiamo parlarne in tantissimi modi…
D: “Forse ho un nome
I: “Lo famo strano?
D: “Se accetta, intervistiamo Jacopo Natoli?
I: “Famolo

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Come si guida una persona che si affida all’arte terapia mantenendo un approccio libero e finalizzato all’autodeterminazione espressiva come il tuo?

L’approccio che seguo, basato sulla metodica LACERVA inventata da Alessandro Tamino, non ha nulla a che fare con l’interpretazione da parte del conduttore. È davvero un approccio «libero e finalizzato all’autodeterminazione espressiva». Se ho capito bene la domanda. Ha più a che fare con il rito, il gioco e la performance. L’interpretazione di quello che “esce” è tua e solo tua. Inoltre, essendo una metodica basata sull’uso del corpo, dell’immaginazione, del «come se», può non aver bisogni di meta-discorsi. Il cambiamento è, piuttosto, embodied, per usare un termine preso a prestito dalle neuroscienze. Se volete approfondire qui la mia tesi di specializzazione.


Aggiungo che, la metodica, può essere applicata a diversi contesti e gruppi. Mi è capitato di fare laboratori a scuola – primaria e secondaria, all’università; in contesti informali per attivare processi di co-creazione e mitogenesi; in musei e centri d’arte; in clinica; in gruppi di lavoro; in aziende. Ogni contesto ha finalità specifiche e diversi gradi di “profondità”.    

Jacopo Natoli come Trickster (foto di Denys Tsybulko)

Leggendo la tua tesi mi ha molto colpito il fatto che è possibile che si riproponga la situazione traumatica da rivivere, come si comporta il gruppo in questi casi?

Funziona un po’ così: in un ambiente protetto, attraverso delle figure proiettive (l’animale, l’alieno, il mutante etc.) e nei limiti di un gioco o di una messa in scena, attiviamo potenziali situazioni traumatiche o anche semplicemente conflittuali. Successivamente, anche attraverso l’energia del gruppo, immaginiamo – non a livello discorsivo bensì in un’azione, possibili soluzioni. Nella parte finale dei laboratori c’è sempre uno o più “giri di ricomposizione”, dove il conduttore guida un dialogo dell’esperienza appena vissuta. 

Il gruppo è una comunità temporanea dove inscenare pubblicamente, ripeto, in un ambiente protetto e non giudicante, una “situazione traumatica”. In questo senso il gruppo condivide con il conduttore la responsabilità di testimone, di sfera pubblica, di vettore d’ascolto, di cura, di comprensione, di rimodulatore collettivo di regimi simbolici.

The Multiple Author, co-creation and sympoiesis, Lviv, 3-4 dicembre 2020 (foto di Anastasiya Ivanova)

CI piacerebbe conoscere qualche esempio di espressività che ti ha colpito o che reputi interessante da condividere.

Esempi di espressività in chi e/o cosa? 
Le orchidee? 
I corpi fruttiferi del micelio? 
I tartufi? 
Le ali delle farfalle? 
La cresta di un gallo? 
I buchi neri? 
Van Gogh? 

Con questa domanda mi riferivo a qualche momento o lavoro o esperienza delle persone che si sono approcciate a questo metodo che ti ha colpito, chiaramente non necessariamente in modo positivo, o che reputi interessante e/o bello per qualche motivo condividere, leggendo la tua tesi mi piacerebbe sapere dei momenti di gioco e relazionali, se e come hanno permesso all* partecipant* di lasciarsi coinvolgere.

Il gioco è la chiave. Fantastico di cambiare il primo articolo della costituzione: 

«L’Italia è una Repubblica fondata sul gioco». 

Nei miei laboratori, che, ripeto, ho elaborato grazie alla guida di Alessandro Tamino, il conduttore imposta di volta in volte dei “limiti performativi” che impegnano in modo “totalizzante” il gruppo. Non c’è nulla fuori la performance. Il fine della performance si svolge in uno spazio condiviso non ordinario nella quale non è possibile prevedere i “gesti” dei partecipanti. Le azioni sono svolte in un ambiente “fantastico” che oscilla in maniera discontinua dai gesti e dalle relazioni della quotidianità. Sono inoltre azioni improduttive, nel senso che non è possibile stabilire in termini quantitativi le ripercussioni della azioni stesse, che andranno eventualmente a modificare in modo incalcolabile il nostro ventaglio emozionale e le nostre capacità relazionali. Infatti lo sforzo che facciamo durante le nostre performance è un contrappunto ad ostacoli e situazioni non determinate dalla necessità. Questo sforzo però, può in qualche modo “stare per”, quindi attivare un processo di elaborazione simbolica che può avere ricadute positive nel “teatro della vita”.   

Il gioco inoltre permette d’innestare elementi regressivi legati all’infanzia. Questo clima di gioco libero, tipico del bambino, può favorire l’attivazione di uno stato fusionale con il gruppo facilitando la circolazione di “flussi inconsci” che appartengono alla preistoria del nostro stare al mondo.

La nostra concezione di gioco può essere avvicinata a quello che Gilles Deleuze in Logica del Senso (1969) chiama gioco puro: «i caratteri dei giochi normali sono dunque le regole categoriche preesistenti, le ipotesi distributive, le distrazioni fissee numericamente distinte, i risultati conseguenti Nel gioco puro invece  «non vi sono regole preesistenti, ogni colpo inventa le sue regole, verte sulla propria regola».   Quindi, l’effetto minimo che può produrre questa esperienza è vivere un gioco inedito renon standardizzato dove applicare e sperimentare le proprie potenzialità creative. Potenzialità creative che certamente condividiamo con il mondo animale e vegetale e che definiamo come la capacità di organizzare le nostre risorse in modo efficace. 

Come ti sei avvicinato all’arte terapia? In che modo lo consideri funzionale alla crescita personale individuale? 

Percorso lungo che provo a riassumere: appena di ritorno da Londra, nel 2011, voglio girare un documentario in una comunità psichiatrica. Dopo diversi tentativi, grazie alla lungimiranza di Santo Rullo, vengo accolto presso Villa Letizia, a Roma. Lì, per un intero anno, attraverso laboratori che avevano diverse telecamere amatoriali e cellulari (all’epoca era davvero una novità!) giriamo un documentario collettivo, dove gli ospiti della comunità partecipano attivamente alle riprese e al montaggio. Vivo un mese nella comunità. Mi interesso sempre di più al linguaggio schizofrenico. Deleuze e Guattari, la schizoanalisi, l’antipsichiatria, Louis Wolfson, R. D. Laing, la scuola di Palo Alto, Bifo, Lacan, David Cooper, Giovanni Jervis…e via dicendo…Boom! Approfondisco, scrivo un articolo, non mi basta, cerco un terreno comune tra arte e terapia, trovo Alessandro Tamino, un maestro, mi specializzo, proseguo, scopro altre metodiche, c’è Bruno Munari, c’è Claudia Castellucci, c’è Augusto Boal, la Montessori, le integro, ne invento di nuove, fondo Sgorbio con Danilo Innocenti… insomma, eccoci, ora. 

L’arte terapia, proprio come campo, vi cito, «libero e finalizzato all’autodeterminazione espressiva» è utile per vedersi vedere, o ascoltarsi ascoltare, o annusarsi annusare, o toccarsi toccare, o gustarsi gustare, o meglio meglio ancora, vedersi gustare e tutte le combinazioni possibili.  

Che consigli daresti a chi vuole avvicinarsi all’arte terapia come strumento di crescita

Provate diversi metodi e approfondite quelli che vi aggradano.

Ci racconti come funziona “Just Art”? Vogliamo sapere tutto

Just Art, nata il primo maggio 2020, è la prima compagnia al mondo che consegna a domicilio opere d’arte commestibili. L’idea è precedente al 2020, avevo già intuito un cambiamento paradigmatico del paesaggio urbano, il lockdown ha radicalizzato questo paesaggio e mi ha spinto a formalizzare l’idea. In ogni caso Just Art fa quello che dice. 

Per saperne di più www.eatjustart.com

fig. 5 Jacopo Natoli come Driver per Just Art (foto di Aleksandra Sindeeva)

“Bisogna essere almeno in due per fare almeno un’immagine”, una frase che troviamo meravigliosa che introduce il progetto “Sgorbio”. Come nasce? Come funziona? 

L’ho rubata, cambiandola un po’ credo, da Jean Luc Godard, forse è in quelle vecchie edizioni Castoro…funziona, eccome se funziona!) Per Godard (e non solo) l’immagine è fatta da chi guarda. Per Sgorbio è letteralmente fatta collettivamente. Sempre almeno in due, meglio se in molte e molti, senza competenze, trans-generazionalmente.  

A me (Isotta) sembra che tu faccia molta Arte Attiva – e mi è venuta così, osservandoti. Che ne pensi?

Penso di sì, direi iper-attiva, forse è uno stile. Mi dicono spesso che faccio troppe cose, non riescono ad inquadrarmi…ormai è tardi. 

Ora dove possiamo trovarti? Sempre se vuoi, che non si sa mai

Ora mi trovate allo 0039 3315430139 o jacoponatoli@gmail.com, per i prossimi dua anni sarò un po’ più fisso a Roma, quindi venite a casa-studio, vi ospito; ho poi la sede di Sgorbio a Tivoli, presso la Casa delle Culture. Inoltre, ho uno spazio condiviso con altri artist* e curator* a Campo Boario, si chiama Edicola del Villaggio, è una vera e propria edicola, abbandonata, che abbiamo rigenerato, con il supporto del Municipio e dell’Accademia di Belle Arti di Roma. A breve prenderò uno studio mobile di 1mq dotato di ruote presso Post-ex, sempre a Roma. Infine potete scrivere il mio cv – quello che sapete o non sapete su di me, qui: www.jacoponatoli.it.

[Aggiungo, certo che voglio: 

Del resto mimporta ‘nasega sai

Ma fatta bene che non si sa mai

Che non si sa mai che non si sa mai

Che non si sa mai che non si sa mai.]

Immagine di anteprima
I am where I am fine, Lviv, settembre 2020 (foto di Anastasiya Ivanova)

Isotta Esposito, Delia Mangano, Marta Selene Tudisco per Viaggiarte